Riportiamo parte dell’intervista realizzata da Giuseppe Marasti per Economia Italiana, ove si trovano molti spunti per approfondire la conoscenza dell’Aceto Balsamico.
Maurizio Fini, presidente e Gran maestro della Consorteria, racconta a Economia Italiana.it come questo prodotto, un tempo dato in dote alle nobildonne che si sposavano, sia diventato un prodotto di nicchia a livello mondiale. E come si stia provvedendo a riparare ai… danni della storia
Maurizio Fini, 70 anni, ex imprenditore nel settore della fotografia, è al suo secondo mandato di presidente e Gran maestro della Consorteria dell’Aceto balsamico tradizionale, con sede a Spilamberto di Modena. Suo nonno, mutilato della Prima guerra mondiale, un giorno gli chiese di accompagnarlo da un suo fratello a prendere delle damigiane di vino Trebbiano. Una volta imbottigliato, le bottiglie furono riposte in un luogo inadatto, troppo esposto al sole e il vino si acetificò.
Questo fu il suo primo incontro con l’aceto che avrebbe poi sviluppato e intensificato negli anni. Nel 1975 sarebbe entrato come socio nella Consorteria di Spilamberto e da una decina d’anni riveste ruoli importanti all’interno di questa associazione che conta oltre 800 soci. Innovazione a servizio della tradizione sono da sempre la parole d’ordine del Gran Maestro che rimarrà alla guida della Consorteria fino al 2021 e che abbiamo intervistato.
Gran maestro Fini, nel concreto quali sono i suoi incarichi?
Sono di tanti tipi, oltre alle consuete attività amministrative, organizzative e logistiche, si pensi per esempio all’organizzazione del Palio annuale, ovvero alla valutazione di oltre 1.500 aceti provenienti da aziende familiari, che rappresentano soltanto la punta dell’iceberg delle acetaie modenesi. Tutti i campioni devono, una volta anonimizzati, essere sottoposti alle analisi, eseguite dal nostro laboratorio interno, per misurarne la densità espressa in gradi Brix e l’acidità volumetrica. Gli stessi campioni successivamente saranno assaggiati dai Maestri assaggiatori attraverso una degustazione organolettica. I meglio classificati, circa il 50%, entreranno nei quarti di finali, da dove emergeranno 72 semifinalisti. Un successivo ulteriore assaggio ci consentirà di individuare i 12 finalisti che si contenderanno il titolo di miglior aceto balsamico dell’anno, ricevendo in una manifestazione all’interno della Fiera di San Giovanni a Spilamberto onori e riconoscimenti. Agli assaggi, circa 14.000, partecipano 300 soci che si alternano per oltre 30 serate, collezionando 3,500 presenze totali.
Ma l’incarico più importante ritengo sia, oltre che il più oneroso, quello di custode della tradizione secolare che l’aceto balsamico, come espressione culturale di un territorio, merita. Infatti sono impegnato a preservare e diffondere proprio la tradizione del “fare” aceto, in maniera del tutto naturale, continuando a mantenere una rotta inequivocabilmente già definita dai nostri avi. Basti pensare che il Balsamico tradizionale è composto unicamente da un solo ingrediente: il mosto d’uva cotto.
Non manca inoltre un’attività di formazione. Si diventa infatti Maestri assaggiatori solo dopo aver frequentato un corso base, per poi proseguire per una decina d’anni a ripetuti allenamenti per educare olfatto e gusto a riconoscere profumi e sapori che si creano all’interno delle batterie grazie alle trasformazioni enzimatiche che durano minimo 12 anni, ma arrivano fino a 25 anni. E solo in questo caso potremo definire il nostro aceto come extra vecchio.
Come si diventa Gran maestro?
Attraverso una votazione triennale i Soci esprimono, con il loro voto, il gradimento di candidati che hanno messo al servizio della Consorteria il loro tempo, la propria passione (siamo tutti rigorosamente volontari) e le loro competenze. Una volta eletti i Consiglieri eleggono il Gran Maestro.
Il poeta Virgilio nel primo libro delle Georgiche descrive una scena ambientata in una casa di contadini della sua Mantova: “E’ autunno… la donna siede al telaio, tesse e canta” oppure – scrive il poeta – “cuoce il mosto, il dolce succo, sul fuoco, togliendo attentamente con una frasca la schiuma dal liquido ribollente sul paiolo”. Forse si trattava già di un aceto con caratteristiche balsamiche?
Certamente no, o meglio, non ancora. La pratica di cuocere il mosto nelle zone della pianura Padana è sicuramente millenaria. Le uve autoctone di quel tempo, Vitis Labrusca e Fortana, producevano un vino di bassa gradazione, scarsamente serbevole, per cui il mosto si prestava particolarmente alla cottura (conservazione). E l’aumento del tenore zuccherino che si otteneva serviva a “tagliare” il vino dei Romani che acetificava naturalmente per l’azione degli acetobatteri risultando pertanto imbevibile. E non esistevano a quel tempo contenitori (bottiglie) in grado di impedire l’ossidazione del vino. Le famiglie patrizie utilizzavano il miele (raro e costoso) il resto della popolazione “dolcificava” il vino diventato aceto con il mosto cotto.
Quando e dove nasce allora esattamente il vero Aceto balsamico di Modena, le cui acetaie nei tempi andati venivano date in dote alle nobildonne che si sposavano?
Dalle testimonianze antiche sull’uso del mosto cotto nell’antica Roma, rileviamo nel De Coquinaria, di Apicio, famoso cuoco dell’epoca, la descrizione delle favorevoli mutazioni del mosto cotto quando veniva dimenticato, lasciato in botti per uno o più anni “soletascetere” e risultava più buono. Come per tanti altri prodotti, la casualità ha giocato un ruolo importante. Determinante, in particolare, è stata la conservazione degli usi e la loro trasmissione alle generazioni successive.
h3>Gli Estensi nel 1598 si trasferirono da Ferrara a Modena, portarono con sé tutti i loro aceti, ma lì ne scoprirono un altro, sconosciuto ai più, prodotto a livello familiare e in ambienti ristretti non si sa da quanto tempo. Questo poteva già considerarsi Aceto balsamico?
Certamente sì, anche se ancora non veniva chiamato tale. Gli Estensi (cui contrariamente a Ferrara, dopo oltre 300 anni di regno, Modena non ha dedicato nemmeno una via…) si innamorano di quell’accetto ricavato da solo mosto, purgato e ridotto secondo la pratica, completamente diverso, con una armonia di profumi e sapori ineguagliabili. Nel sottotetto della torre ovest, detta del Prato, favorirono la dimora di una acetaia alimentata con solo mosto cotto, in quella torre maturò col tempo un aceto eccellente che venne denominato prima aceto del Duca e solo nel 1747 fu appellato Aceto Balsamico come si rileva dall’inventario delle cantine Ducali ove vengono registrati tre tipi di aceti: comune, semibalsamico e Balsamico fine.
Le batterie dell’Acetaia Ducale furono depredate da Napoleone che le monetizzò, vendendole all’asta. L’aceto uscì così dall’aurea nobiliare per entrare nella borghesia di quel tempo, restando però nell’ambito di famiglie Modenesi. Fino ai giorni nostri l’acetaia ducale è rimasta orfana, priva di batterie. Ho però avuto la possibilità, grazie alla sensibilità dei vertici militari (oggi palazzo Ducale è sede dell’Accademia Militare) di riportare nello stesso identico luogo alcune batterie che come Consorteria ci onoriamo di seguire, amare e curate: un ulteriore compito del Gran maestro: riparare i danni della storia!
Oltre all’Aceto balsamico tradizionale, quanti altri tipi di Aceto balsamico di Modena esistono?
Oltre all’Aceto balsamico tradizionale Dop, la provincia di Modena produce Aceto balsamico di Modena Igp. La differenza consiste nel fatto che il primo, oltre a fregiarsi della Dop, si ottiene solo ed esclusivamente dalla lenta maturazione e invecchiamento di mosto cotto di uve autoctone della provincia. E occorrono almeno 12 anni per essere denominato Aceto balsamico tradizionale, mentre dopo 25 anni di permanenza in batteria può essere definito Extravecchio. Il tutto regolamento da un rigoroso disciplinare risalente di fatto al 1860 a opera dell’avvocato Aggazzotti.
Il secondo è ottenuto dalla miscelazione di aceto di vino, mosto concentrato e caramello, in misura predeterminata dal disciplinare, e per potersi fregiare del marchio Igp, prevede che almeno una lavorazione, di norma l’imbottigliamento, debba avvenire in provincia di Modena, dove ovviamente ritroviamo tutti gli acetifici industriali. Il tempo di maturazione è previsto in tre mesi, mentre per potersi fregiare della denominazione di Invecchiato debbono trascorrere tre anni.
Ulteriori aceti classificati come “condimenti” sono ottenuti utilizzando sistemi, materie prime e pseudo invecchiamenti più disparati, normalmente di bassissima acidità (per questo non classificabili come aceti) risultano accattivanti per la loro dolcezza.
Una ulteriore offerta (aberrante) sul mercato, è data dalle cosiddette “glasse”, prodotti industriali di sintesi, nella cui etichetta possiamo leggere: prodotto “all’Aceto balsamico IGP” il quale vi è contenuto nella misura, se non vado errato, del 5%.
Come si ottiene l’Aceto balsamico tradizionale? Quanti anni debbono trascorrere perché sia considerato tale?
Si ottiene come abbiamo visto dalla maturazione e invecchiamento del mosto cotto. Il corretto procedimento inizia pertanto dalla lenta cottura a cielo aperto (paioli senza coperchio) di mosto crudo ricavato dalla spremitura dolce di uve locali come i Lambruschi, il Trebbiano o Trebbianina, l’Ancellotta, la Sgavetta e tutti i vitigni riconosciuti con la Denominazione d’origine controllata Doc. La cottura a temperature inferiori ai 90° gradi non deve, come da tradizione, protrarsi per oltre 10 massimo 12 ore. Il che comporterà un calo di circa il 30% esattamente come al tempo dei Romani che lo definivano Defrutum e lo riponevano nella camera defrutaria. Il mosto così ottenuto grazie all’azione dei lieviti trasformerà gli zuccheri in alcol e successivamente l’azione degli acetobatteri trasformerà, attraverso una biossidazione acetica, il mosto alcolico in acido acetico.
Saremo pertanto pronti a immettere nella nostra batteria, non prima di aver depurato ogni barile dai tannini in eccesso e dall’acido gallico contenuto nei legni, il mosto acetificato.
La batteria, fatta con legni tradizionali quali il Gelso, il Ciliegio Selvatico, il Castagno, il Rovere, il Ginepro verrà riposta in solaio dove subirà l’escursione termica delle nostri estati torride e il freddo rigido dell’inverno. Durante l’estate il contenuto delle botti evaporerà lentamente, si renderà pertanto necessario rincalzare, travasare e ripristinare il “calato” ogni anno della botte “di coda” la più piccola, attingendo dalla botte numero due e così via, nella botte grande di testa andrà immesso il mosto acetificato frutto dell’ultima vendemmia.